Il mito nell’uomo. Di archetipi e psiche
“Nessun archetipo è riducibile a semplici formule. L’archetipo è come un vaso che non si può svuotare né riempire mai completamente. In sé, esiste solo in potenza, e quando prende forma in una determinata materia, non è più lo stesso di prima. Esso persiste attraverso i millenni ed esige tuttavia sempre nuove interpretazioni. Gli archetipi sono elementi incrollabili dell’inconscio, ma cambiano forma continuamente“.
Buio o luce. Ragione o sentimento. Introversione o estroversione. Aspetti, questi, che (evidentemente) viaggiano in direzione contrapposta; dicotomie di cui, ciascuno di noi, sceglie l’estremo che più gli appartiene e dentro cui sostare, poiché più confacente alla propria natura. Sono dimensioni che, nelle nostre esistenze, finiscono molte volte con l’essere polarizzate, poiché parti integranti delle rispettive inclinazioni di base. Sono parole che contengono e condensano un’essenza, che tracciano un ritratto seppur appena abbozzato di noi e delineano confini. Parole che raccontano mondi e modi di essere spesso in antitesi fra loro. Ma a ben guardare, nel profondo della nostra psiche, difficilmente il tutto possiede caratteri così netti.
La nostra personalità intera, il sistema di valori, i pensieri, i comportamenti e le attitudini individuali che ci appartengono, certamente discendono da molteplici componenti incrociate che giustificano la complessità e le dinamiche della nostra psiche e le cui radici includono la confluenza ed influenza di aspetti genetici, storici e socio – culturali, unitamente all’insieme delle esperienze soggettive che hanno plasmato e temprato l’esistenza dell’uomo. Sin dalla nascita, la famiglia d’origine e la società in cui è immerso, esercitano sull’uomo un ampio potere, causa il carico di aspettative, più o meno tacite, a cui sente di dover rispondere sposando un modello “esterno”, stereotipato: un modello, che in qualche modo indica all’uomo quale sia la strada da percorrere ed il ruolo cui conformarsi, verso il quale finisce spesso con l’orientarsi.
Ma accanto e “oltre” a questo genere di modello, ve n’è uno, interno, che sembrerebbe agire sulla psiche dell’uomo ad un livello ben più latente: esso coincide coi lati nascosti, o meglio, invisibili, che ciascuno di noi, possiede nel profondo di sè. E’ una dotazione innata, impersonale e condivisa, un patrimonio dinamico di storie ed immagini già acquisito in partenza, che in qualche modo ci precede e trascende, andando oltre il tempo, la storia ed il culto dell’uomo. Questa eredità atavica dal carattere universale – che accomuna ogni uomo in ogni luogo e in ogni tempo, prescindendo dalla sua esperienza più strettamente soggettiva e, pertanto, anche dal suo inconscio individuale – risponde al concetto junghiano di archetipo (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “Star Wars: Il risveglio della Forza” – Il cinema e l’eredità del mito, tra eroi, spade laser e archetipi junghiani”). Potremmo figurarci l’archetipo (dal greco archè – governo, principio e tupos – primitivo), come una sorta d’ immagine prototipica, come quel simbolo originario e preesistente da cui tutto ha avuto origine. E’ a partenza da questo modello che lo precede e lo oltrepassa, che l’uomo legge e si orienta nel mondo, ed è ancora questo modello a rientrare nel cosiddetto inconscio collettivo: una dimensione profonda accomunante l’umanità intera e che nel sogno, nella fiaba e nel mito, trova un canale privilegiato d’espressione per immagini fantastiche (per un approfondimento si rimanda agli articoli: “Sogni tipici – L’umanità che sogna”, “Il sogno come messaggio – Dalle immagini oniriche al cambiamento” e “La funzione psicologica della fiaba – Il regno del proprio inconscio” ). In relazione al mito, potremmo considerare queste “visioni” primigenie e gruppali, assimilabili alle fascinose divinità dell’Olimpo e agli avvenimenti mitici che esse tracciano attraverso il simbolo. Le storie che raccontano col mito posseggono messaggi che non si esauriscono nell’uomo, poiché quei contenuti sono universali. Sono storie archetipiche.
E’ un po’ come se idealmente in ognuno di noi albergassero diversi dèi, le cui vicende mitiche rappresentano la realtà universalmente condivisa dagli uomini di ogni luogo della terra e oltre il loro tempo storico: sono dèi e dee che incarnano, “traducono”, rappresentano, personalità, pensieri e comportamenti archetipici dell’uomo.
Ma cosa accade se i due modelli, esterno ed interno – stereotipo ed archetipo – finiscono col divergere l’uno dall’altro? Quando i ruoli che l’uomo ha scelto o si è imposto di ricoprire (per allinearsi alle aspettative esterne comunitarie) si discostano decisamente dai suoi contenuti più veri e profondi – e quindi, dai suoi archetipi, i due modelli si sovrappongono creando confusione ed entrando in competizione: da essi, si origina un conflitto psichico (stallo, disagio, difficolta), più o meno importante. Se pensiamo che gli archetipi rispondono ad un modello innato – che precede e supera l’uomo agendo sin nei meandri della sua psiche – si comprende forse più facilmente come questa loro ancestrale presenza sia sottesa e potente, e come essa pretenda di essere “vista”, riconosciuta – pertanto, integrata ad un livello più cosciente – e non negata ovvero oscurata dai richiami del modello di superficie. Laddove questo non dovesse avvenire, l’azione degli dèi interni all’uomo si farebbe sentire così prepotente da tramutarsi in distruttiva e ciò in quanto essi tenderanno a farsi sempre più largo nella psiche così da ri – prendersi quello spazio centrale che si aspettano di avere nella sua esistenza. Tanto più l’uomo è distante dal contatto con questo livello di conoscenza superiore e profondo, quanto più la sua esistenza procederà lontano dalla dimensione più autentica di sé. Ciascun individuo potrebbe contenere dei modelli archetipici diversi dagli altri, o ancora, potrebbero esservi alcuni dèi maggiormente incarnati nell’uomo, dominanti per sua natura a discapito di altri, ben più sacrificati. In quel caso potrebbe derivarvi una particolare inclinazione o qualità – come ad esempio l’attitudine per la musica, o la capacità d’astrazione, o l’intelligenza – ovvero, dei veri e propri sbilanciamenti interni, dettati ad esempio dall’inibizione o totale assenza della dimensione emotiva in un individuo (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “Il potere magico della musica – Dal mito all’uomo moderno”). In sostanza, ogni differenza individuale sarebbe dettata dall’influenza di un certo archetipo, che quando assai marcata predispone al rischio di una eccessiva identificazione con quel dio, che può divenire schiacciante.
Accostarsi agli dèi che regnano nelle profondità della psiche e che rimandano ai diversi archetipi sottesi, è un modo che consente di entrare in contatto e accogliere quelle parti di sé rimaste sconosciute e inascoltate fino a quel momento e dietro cui può celarsi il senso di un comportamento in apparenza incomprensibile. L’ascolto del mito permette di cogliere somiglianze e differenze dentro l’uomo, che può così meglio districarsi attraverso la complessità della sua natura.
Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti
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Per approfondire:
Jung C. G. Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Biblioteca Bollati Boringhieri, Torino, 1977