Regressione e Terapia. Della natura di quei salti all’indietro
Partiamo dal basso. O se volete da lontano, proprio come fa quel nostro paziente in seduta. Regressione: deriva dal verbo regredire. E’ un movimento all’indietro, un andare a ritroso, che si ripete, lento e doloroso, ma pur sempre e nonostante tutto, necessario. In ambito analitico, questo particolare andamento è inteso come un tornare a stadi di sviluppo psichico precedenti e generalmente la sua presenza è vista in un’accezione decisamente negativa. Già Freud ad esempio riteneva il movimento come ostacolante, un inconveniente decisamente spiacevole che, quando finiva col popolare la stanza d’analisi, rischiava d’impedire il progresso dei processi psichici. Un regredire contrapposto all’integrare. Ma è davvero così?
Una delle più interessanti formulazioni del termine è certamente quella proposta da D. Winnicott: secondo il celebre pediatra e psicoanalista, alcuni pazienti presentano un bisogno di regredire nella stanza di terapia assai maggiore di altri e questo in quanto il bambino che alberga in loro, a suo tempo, ha fatto esperienza di un ambiente rivelatosi profondamente incapace di fornire il giusto appoggio e le dovute cure atte a permettere a quell’infante di esperire il mondo pienamente su di sé.
L’ambiente, che avrebbe dovuto ovattare il fanciullo restituendogli cioè sotto un’altra forma quelle esperienze primordiali vissute sulla pelle, facendosi invece intrusivo o invisibile, vi aveva violentemente reagito, non lasciando altra via al bambino se non quella di far largo al Falso Sé, nel tentativo di nascondere e proteggere dall’ostilità del mondo quello Vero (Sé) e così da evitare un impatto che sarebbe stato ancor più traumatico, laddove avesse inciampato nel caos e nella frammentazione vera e propria.
Durante la regressione terapeutica, il paziente accede a forme di dipendenza assai profonde, toccando livelli arcaici di sviluppo che l’analista ha l’arduo compito di sostenere e supportare, così da permettere al paziente – probabilmente per la prima volta in vita sua – di fare esperienza di un ambiente talmente confortevole e sicuro da concedergli addirittura di “stare dentro” a stati di ritiro temporaneo. Questa operazione – che richiede al terapeuta un costante lavoro controtransferale – finisce col rivelarsi per lui assai coinvolgente ed impegnativa sul piano emotivo. Il terapeuta deve cioè prestare attenzione anche ai sentimenti d’odio suscitatigli dal paziente nella situazione analitica, così che – una volta verbalizzati ed integrati coi più “comodi” sentimenti d’amore – quest’ultimo possa legittimare anche i propri, percependo l’esperienza nel qui ed ora dell’analisi come la prima esperienza finalmente autentica. Reale. Il fatto che l’analista porti con sé nella stanza d’analisi una quota della propria autenticità, accogliendo il mondo emotivo del paziente nel suo intero, concederà a quest’ultimo la possibilità di usare il terapeuta come oggetto soggettivo; inoltre, il terapeuta a quell’uso di sé carico d’odio e distruttività dal sapore antico, non risponde con alcuna ritorsione. L’ambiente riprodotto in seduta dall’analista deve poi essere della giusta neutralità, così da non venir letto dal paziente né come troppo invadente di quel proprio spazio vitale, né come eccessivamente distanziante: se tali precondizioni sono rispettate ed il terapeuta lavora a sufficienza su di sé, tenendo a mente e reggendo la regressione, anche nel silenzio, senza di contro reagirvi con interpretazioni difensive e pericolose per il paziente, questi, può sperimentare la propria “capacità di stare da solo”, che paradossalmente, per avere compimento, abbisogna della presenza di un altro.
Lo stato regressivo finisce col somigliare molto allo stato onirico ed in quella condizione – in cui il paziente non ha accesso alla capacità di simbolizzare diversamente – l’emergere di acting out è assai probabile. Solo dopo che l’esperienza ambientale antica e traumatica viene agìta fisicamente in seduta, ad esempio attraverso contorsioni o irrigidimenti d’ogni genere del paziente, è poi possibile effettuare un salto da quel livello più concreto ad uno di carattere superiore.
Pertanto, grazie alla mediazione dell’analista che mima una cura materna adeguata (la “madre sufficientemente buona”) si assiste nel paziente alla ripresa e allo sviluppo successivo di quei livelli evolutivi che erano allora rimasti come bloccati, o meglio, congelati (freezing) dalla mancanza di contenimento ambientale originaria. In questo senso, decade perciò l’idea di una regressione intesa come evento da evitare tenacemente in quanto sfavorevole al prosieguo dell’analisi e si sposa piuttosto la concezione d’una regressione che sia funzionale a permettere di fare un salto evolutivo in avanti, non prima di aver compiuto un’immersione psichica guidata, piena ed autentica all’indietro.
Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti
Riceve su appuntamento a Larino (CB)
(+39) 327 8526673
Per Approfondire:
Winnicott D. W., Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo. Armando Editore, Milano, 2002.
Winnicott D. W., Gioco e realtà. Armando Editore, Milano, 2005