Pensare i suoi pensieri. Funzione alfa: la mente prestata al paziente
Trovai Paolo già lì davanti ad aspettarmi. Le cuffie nelle orecchie, ad isolarsi dal resto del mondo e lo sguardo un po’ perso e sognante rivolto all’esterno. Ricordo che quel giorno, durante l’ascolto del paziente, non riuscii a star ferma coi pensieri neppure per un attimo. Ebbi l’impressione che lui dovesse a tutti i costi riempire quello spazio col maggior numero possibile di sensazioni, fatti e parole lanciati a rotazione, senza sosta. Tutto sembrava avere un ritmo estremamente veloce e Paolo parlava in modo alquanto concitato; in mezzo a tutti quei suoi discorsi, il silenzio non era contemplato ed io senza “capirci” più niente avevo fatto un’indigestione di tutta quella roba. Ero piena. Una volta da sola, mi riservai un secondo momento per tornare indietro alla seduta e pensare nuova-mente, a tutti quei movimenti.
Ciò che era accaduto ricalcava quanto avviene assai precocemente nell’interazione madre – bambino per merito di una funzione fondamentale, la reverie materna, cui se ne associa un’altra centrale, la cosiddetta funzione alfa. Secondo Bion i pensieri sono preesistenti alla capacità di pensare ed il bambino possiede in origine uno spazio psichico tuttavia primordiale, che è ancora soltanto abbozzato.
Il passaggio dalle prime forme di pensiero (“preconcezioni”, o aspettative innate: ad es. quella di un seno buono) al pensiero vero e proprio è però assai complesso, e passa attraverso l’incontro della preconcezione col reale (“concezione”), che tuttavia rappresenta uno stadio intermedio e non è ancora “pensiero”. Ebbene, il mondo dell’infante è popolato da una moltitudine di stimoli sensoriali, tutti allo stato grezzo, ivi incluso il mondo emotivo (parliamo infatti di “proto–emozioni”: per un approfondimento si rimanda all’articolo “Il boomerang delle emozioni – Viverle o evitarle”): per la mente dell’infante – ancora troppo fragile poiché in piena via di sviluppo – l’impatto con questi contenuti è tale da generare caos e costanti quote d’angoscia disarmanti e confusive, che necessitano di essere in qualche modo domate dall’ausilio dell’altro.
Ed è qui che interviene la madre a far da modulatore di quei contenuti tanto violenti ed indistinti, prestando il proprio apparato del pensiero ai fini della sopravvivenza psichica del bambino e prendendo dentro di sè ognuno di questi elementi, sopraggiunti impetuosi ed improvvisi. Il piccolo, avendo del mondo un esperienza iniziale estremamente “concreta”, vive i contenuti in questione come fossero delle “cose” in sè, dotate di vita propria e di un potere distruttivo fortissimo (elementi beta): non riuscendo a farvi fronte né a decifrare il messaggio che tali oggetti posseggono, il bambino vive l’impellenza di doverli espellere e nel farlo “usa la madre” alla stregua di un filtro per quei contenuti tanto ingombranti, che lo condurrebbero in un’area indifferenziata, dove a regnare sovrano è un senso di morte, di crollo, che non può ancora essere pensato. Così, attraverso il meccanismo dell’identificazione proiettiva (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “I meccanismi di difesa – Quei garanti della sopravvivenza”), l’infante scaglia contro la madre questi dati sensoriali – che non è ancora in grado di processare da sé – un po’ come fossero dei blocchi senza forma alcuna; la madre, piuttosto che “vendicarsi” rendendo nuovamente al mittente tale scarica, grazie alla propria reverie entra in contatto coi bisogni profondi del bambino, sintonizzandosi emotivamente con lui e sostenendolo, accogliendone i contenuti proiettati (come ad esempio, le emozioni più dolorose: rabbia o odio) decodificandoli, ed infine, una volta trasformati, restituendoli al suo piccolo in una nuova forma finalmente più digeribile, finalmente pensabile (funzione alfa ed elementi alfa). La funzione alfa genera gli elementi alfa, che vanno intesi un po’ come quel cibo che alimenta in modo benefico la nostra mente: gli stimoli sensoriali sono tramutati in immagini visive, impiegate sia nello stato di sonno – dove a farla da padrone è l’inconscio – sia in quello di veglia, nel fluire cosciente dei ricordi e nel pensiero onirico. Inoltre, la capacità recettiva straordinaria della madre, che è la reverie, ha cioè permesso al bambino di sentirsi avvolto e protetto in questa relazione, come fosse contenuto dentro ad una pelle psichica in cui, facendo esperienza del mondo, ha potuto al contempo far esperienza di sé e conoscersi. Scoprirsi. La madre ha cioè tradotto in simbolo quell’esperienza del reale dapprima non – pensabile e ora rappresentabile per l’infante (la madre è qui sentita come “contenitore buono”) ed in cui ogni esperienza acquista un certo ordine e senso come fosse una trama via via più ricca, che può ora esser raccontata, a partenza dal racconto di sé. Finalmente, la parola sta al posto di qualcos’altro: ecco farsi largo il pensiero. L’aver interiorizzato la funzione alfa materna gli consentirà inoltre, per l’avvenire, di fronteggiare adeguatamente anche quel complesso di situazioni estremamente spiacevoli cui sarà sottoposto: è il caso della frustrazione scaturente dall’improvvisa assenza di un seno buono, che dapprima era presente. Una volta interiorizzata la funzione alfa materna, potendo ora tollerare la frustrazione per il caso di specie, vive finalmente su di sé l’esperienza dell’assenza dell’oggetto, grazie alla quale potrà creare il simbolo e rappresentarsi mentalmente il seno materno.
Tuttavia, quando il contenitore materno si dimostra carente o inadeguato a sostenere gli elementi beta in arrivo e a digerirli al posto del bambino per poi renderglieli in forma più snella, questi potrà mostrare una scarsa tolleranza alla frustrazione ed in linea più generale potremmo dire che le situazioni clinicamente rilevanti (è il caso delle psicosi), discendono da una mancata introiezione della funzione alfa di base, col conseguente strabordare degli elementi beta indigeriti, circostanza che impedisce la creazione del pensiero. Tali elementi beta saturanti sono visti insomma come corpi estranei al sé e di cui ci si deve sbarazzare nell’imminenza. Per cui, la fuga dai dati di realtà è qui disperatamente impiegata assieme all’identificazione proiettiva, in dosi sempre più violente e disgreganti, entrambe come misure estreme atte a contrastare un reale che appare indecifrato e indecifrabile, in cui ogni più piccola esperienza dello psicotico è percepita come “cosa”, entità non descrivibile né contenibile, dal carattere persecutorio, che costantemente mina i confini già labili dell’apparato psichico qui estremamente danneggiato. Pertanto, il compito dell’analista è qui quello di riparare in qualche modo il contenitore difettoso, mettendo a prestito la propria mente – contenitore e consentendo al paziente di fare una nuova esperienza, correttiva e creativa insieme, in cui, ad essere contenuti e pensati senza con ciò rischiare un crollo primordiale, possono essere anche i pensieri più inquietanti e senza forma. Proprio come quelli di Paolo.
Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti
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Per Approfondire:
– Bion W.R. Una teoria del pensiero. In: Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico. Roma, Armando, 1970.
– Bion W.R, Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.