Nella mente del bambino
L’uso dell’oggetto: alla scoperta del mondo
Soffermandoci attentamente sulle fasi di sviluppo più precoci dell’infante, uno degli aspetti che appare forse più prepotentemente sulla scena è la modalità d’interazione che il bambino intrattiene col proprio mondo. Al centro di quell’universo, il bambino colloca anzitutto la propria madre, qui concepita come sua estensione e primo oggetto d’amore indiscusso su cui andrà a riverberarsi ogni sua proiezione e ambivalenza (per un approfondimento, si rimanda all’articolo Amore e odio. Bambino, oggetto e spinta alla riparazione. Il momento evolutivo qui descritto è indubbiamente connotato da un egocentrismo di fondo di cui l’infante è pienamente intriso: agli occhi di un bambino così piccolo, l’esistenza di oggetti posti nel mondo è tale semplicemente perché lui ha dato loro vita e lì, li ha collocati. In un simile spazio – tempo, ancora estremamente lontano dall’idea dell’altro – da – sé – le relazioni intrattenute dal bambino sono tutte intessute sulla base di una percezione soggettiva della realtà, in cui cioè il mondo intero e la totalità degli oggetti che lo popolano sono un prodotto dell’infante. Una visione così peculiare delle cose può essere meglio compresa solo se associata al controllo onnipotente, un’operazione che in questa sua parte di vita occupa la mente del piccolo in modo decisamente massiccio; nella fattispecie, in questo stadio egli è solo in grado di “entrare in rapporto” con l’oggetto, spostando e agendo su di esso tutte le possibili proiezioni del caso: potremmo dire che il bambino sente come di coincidere con l’oggetto, poiché con esso s’identifica e, percependolo come un tutt’uno con sé, da esso si sente in qualche modo svuotato.
E’ chiaro che in una simile accezione, la sua interazione con l’oggetto è quasi autistica, poiché essa non è altro che il frutto di una sua magica creazione: il bambino è come isolato nel suo rapporto con l’oggetto, il che gli rende ancora assai distante la possibilità di fare un’esperienza del mondo condivisa.
Ma per capire meglio in che modo l’infante giunge alle fasi evolutive successive a quella dell’entrare in rapporto con l’oggetto, è bene accennare all’aggressività. In uno stadio di sviluppo precocissimo, il bambino possiede un’aggressività primaria legata anzitutto all’appetito e all’oralità, ed il cui carattere distruttivo emergente è qui dovuto alla sua primordialità, nel senso che essa non possiede ancora un’intenzionalità di fondo e pertanto tale spinta distruttiva non è dettata da alcun odio verso l’oggetto – che comparirà solo più tardivamente – ma è semplicemente mossa da una avidità primordiale. Ebbene, sarà proprio tale tendenza propulsiva primaria ad operare una distruzione dell’oggetto, fase questa intermedia e che fa da preludio a quella centrale dell’uso dell’oggetto. In questo contesto, la distruzione dell’oggetto assume un ruolo di massima importanza, in quanto si pone come forza vitale primaria generatrice della realtà: la distruttività è cioè qui positivamente intesa come quel movimento creativo e propulsivo del bambino che fonda l’esteriorità, che gli permette di effettuare l’incontro con l’altro da sé. Ma affinché questa creazione dell’esterno e quindi l’incontro col principio di realtà abbiano luogo, permettendo al bambino il salto evolutivo, è necessario che alla distruzione dell’oggetto faccia seguito la sua sopravvivenza: per sopravvivenza s’intende il fatto che l’oggetto in questione (es. la madre – ambiente), abbia resistito agli attacchi del bambino (es. l’infante morde il seno della madre o le “fa male” in qualche modo), rispondendovi adeguatamente e cioè mantenendosi sostanzialmente uguale a se stesso e invariato nelle proprie qualità e negli atteggiamenti senza effettuare ritorsioni di sorta. L’uso ha finalmente rimpiazzato la più semplice “relazione con” l’oggetto.
E eccoci perciò giunti ad un livello più sofisticato: quello dell’uso dell’oggetto; è bene precisare subito che qui, la parola “uso”, lungi dall’essere letta come sinonimo di sfruttamento, non è affatto da considerarsi in chiave negativa. Con l’uso dell’oggetto, frutto della sopravvivenza alla distruzione del bambino, l’oggetto viene collocato fuori da sé e riconosciuto finalmente come realtà esterna, dotata di una sua interezza e di un’esistenza autonoma ed indipendente dal bambino: quando a dominare era invece la fase dell’onnipotenza infantile, l’oggetto era creato e posto nel mondo in quanto generato dall’azione magica dell’infante, mentre ora l’oggetto è trovato nel mondo esterno. L’uso presuppone perciò l’accettazione del fatto che in realtà l’oggetto è sempre stato lì dov’è e che ad averlo creato non è stato il bambino.
Da quel momento in avanti, in base della risposta fornita dall’ambiente alla sua aggressione, il bambino potrà allora reagire operando una distruzione “sana” – una distruzione che avviene cioè su un piano simbolico, fantastico e inconscio – ovvero, laddove l’ambiente non sia stato in grado di reggere e contenere i tentativi distruttivi del bambino – operarne una “reale”, più concreta, che mostra come l’immaturità affettiva del bambino sia chiaramente effetto della reazione ambientale non contenitiva e inadeguata. Pertanto, se alla distruzione dell’oggetto si è associata la sopravvivenza dell’ambiente a quella distruzione, il bambino potrà finalmente iniziare a distinguere il piano della fantasia da quello reale, ora divenuto una realtà condivisa, e qui collocarvi tutti gli oggetti interi, non più colmi delle sue proiezioni. L’oggettivazione del mondo è perciò resa capace dalla sopravvivenza della madre – ambiente: tale madre, in sostanza, può porsi o meno come “sufficientemente buona”, ed in quel caso, non avendo operato alcuna ritorsione, attuato alcun rifiuto, vendetta, maltrattamento o punizione che sia in risposta all’attacco distruttivo della sua creatura, gli avrà permesso di passare dall’entrare in rapporto con l’oggetto all’uso dell’oggetto, in cui regna finalmente una realtà condivisa.
A ben guardare, anche il terapeuta potrà permettere al proprio paziente di divenire capace di usare l’oggetto, così da consentirgli di sperimentare un’esperienza psichica ed affettiva finalmente correttiva e profondamente terapeutica. Tipicamente, il paziente mette in atto tutta una serie di movimenti transferali – che ricalcano decisamente quelli fin qui descritti del bambino nel suo rapportarsi e nell’ usare l’oggetto – attaccando l’analista nel setting, allo scopo di porlo al di fuori del suo controllo onnipotente: se l’analista non farà ritorsioni di alcun genere e si mostrerà invece in grado di sopravvivere, rispondendo così alle tacite richieste di resistenza del paziente senza cadere nella tentazione di rendergli tutta quella distruttività, col proprio esempio gli avrà permesso di sperimentare su di sé la straordinaria esperienza della costanza oggettuale.
Per approfondire:
Winnicott D. W., Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo. Armando Editore, Milano, 2002.
Winnicott D. W., Gioco e realtà. Armando Editore, Milano, 2005
Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti