La schizofrenia e i disturbi psicotici. Il posto degli psicologi
Si sente spesso parlare di Schizofrenia e di Psicosi e spesso si sente dire che si tratta di patologie che possono essere affrontate solo dagli psichiatri. Sarà vero? Uno psicologo potrebbe rispondere di no, ma solamente per allargare il campo del proprio interesse, della propria azione, delle proprie possibilità lavorative. Oppure potrebbe rispondere in base alla propria esperienza, in maniera sincera ed onesta, evidenziando cosa può offrire col proprio l’intervento, ma senza tacerne limiti e criticità.
Tra le psicosi rientrano senza dubbio i disturbi mentali più gravi che compromettono maggiormente la vita dell’individuo. Basti osservare i sintomi riportati dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali per avere un’idea. Quelli caratteristici della Schizofrenia sono:
– deliri;
– allucinazioni;
– eloquio disorganizzato;
– comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico;
– sintomi negativi (ovvero appiattimento affettivo, alogia, abulia).
Nell’area psicotica si trovano poi altri disturbi più o meno simili alla Schizofrenia come il Disturbo Schizofreniforme, il Disturbo Schizoaffetivo, il Disturbo Delirante, il Disturbo Psicotico Breve e altri. Per non annoiare il lettore non andremo a specificare dettagliatamente i sintomi di tutte queste patologie.
Ciò che si può affermare è che ognuno di questi disturbi presenta alcuni dei sintomi che si possono riscontrare nella Schizofrenia. Si tratta di sintomi che lasciano intendere immediatamente quanto possano incidere negativamente sulla possibilità di mantenere un adeguato rapporto con la realtà. Di fatti l’aspetto forse maggiormente distintivo delle psicosi è la perdita del rapporto con la realtà. Minkowski usava l’espressione “perdita dello slancio vitale” per riferirsi all’assenza di un legame tra l’individuo schizofrenico e la propria vita, la propria realtà. Come se non fosse realmente presente a sé stesso, come se non si riuscisse a cogliere la presenza di un’identità umana, ma solo la presenza fisica di un corpo.
Kernberg ha delineato tre criteri tipici dell’organizzazione psicotica di personalità:
– diffusione dell’identità;
– meccanismi di difesa primitivi;
– perdita dell’esame di realtà.
Sarebbe proprio quest’ultimo criterio a differenziare questa organizzazione da quella borderline. Si tratterebbe del segno distintivo.
Proprio per questo probabilmente gli individui affetti da Schizofrenia o altre Psicosi sono difficilmente raggiungibili da un contatto umano. Risultano lontani, assenti, in un’altra dimensione, su un altro pianeta. Non a caso l’uomo comune di fronte a queste persone si trova ad affermare “stanno fuori di testa!”. Ma la sensazione di impotenza e impossibilità di creare un rapporto, anche solo una comunicazione, non è propria solamente dell’uomo comune, ma spesso anche di psichiatri e psicologi. E sarà forse anche per questo che la terapia farmacologica spesso prende il sopravvento offuscando completamente la possibilità di una contemporanea terapia di altro tipo. Come se il distacco dalla realtà impedisca qualsiasi rapporto umano, ma non impedisca di assumere degli psicofarmaci.
I sintomi invalidanti e pericolosi precedentemente citati devono essere fermati e il soggetto affetto dal disturbo ha il diritto di ricevere un trattamento farmacologico che gli impedisca di mettere a rischio la propria vita o quella altrui. O comunque anche solo di convivere con qualche angoscia di meno.
Ma a questo punto sorge una domanda: è realmente possibile solo un intervento di tipo farmacologico?
Vorrei rispondere in base alla mia esperienza, come accennato nelle prime righe dell’articolo. Mi è capitato di conoscere diversi pazienti psicotici ricoverati in una clinica. Si trattava di una clinica nella quale veniva offerta una terapia di tipo psicologico accostata ad una terapia farmacologica. Durante il giro visite, essenziale per gli psichiatri per rendersi conto della necessità o meno di modificare la terapia, essi, accostati dalle psicologhe, invitavano i pazienti a frequentare il gruppo reparto, il gruppo cinema e il gruppo lettura. Non tutti vi si recavano.
Ma il “gruppetto dei fedelissimi” si recava con costanza e precisione agli appuntamenti quotidiani con le psicologhe. In questi gruppi veniva affrontata la patologia principalmente nel suo aspetto di assenza di rapporti umani e quindi perdita di rapporto con la realtà. Lo stesso rapporto con le psicologhe e i tirocinanti portava i pazienti ad essere più attivi, più presenti, a stare meglio. Si potrebbe obiettare che si trattava di soggetti con disturbi meno gravi di altri e che per questo era più facile coinvolgerli. Ma non è così. Tra i “fedelissimi” erano presenti persone affette da gravi patologie psicotiche che però, grazie alla resistenza e tenacia delle psicologhe, uscivano dal loro isolamento e tentavano di riallacciare un debole collegamento con la realtà. Dopo aver creato questo filo si riusciva a lavorare sulla motivazione di intraprendere un percorso terapeutico successivamente alla dimissione dalla clinica. Si cercava quindi di affrontare con farmaci e interventi di tipo psicologico i disturbi nella loro fase più grave, per poter restituire al paziente un’idea chiara sulla propria situazione e su cosa si sarebbe potuto fare. Non è possibile affrontare le psicosi ignorando la necessità di farmaci che blocchino alcuni sintomi molto invalidanti e pericolosi, ma allo stesso tempo non è possibile pensare di poter affrontare dinamiche umane psichiche e interpersonali solamente tramite la farmacologia.
Dott. Roberto Zucchini
Per approfondire:
American Psychiatric Association (2000). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fourth Edition: DSM-IV-TR. American Psychiatric Pub. (Tr. It. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – DSM-IV-TR. Milano: Masson, 2002).
Gabbard, G.O. (1992). Psichiatria Psicodinamica. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Kernberg, O.F. (1987). Disturbi gravi della personalità. Torino: Bollati Boringhieri Editore.
Minkowski, E. (1998). La schizofrenia. Biblioteca Einaudi.