Il dismorfismo corporeo. Il peso di uno sguardo
“Se rendo più scure le mie ciglia e gli occhi più lucenti e le labbra più rosse o se chiedo, di specchio in specchio, se tutto va bene, non è per sfoggio di vanità: io cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato”. W. B. Yeats, 1875
Ho scelto questi intensi versi di Yeats a introduzione del mio articolo perchè a mio avviso capaci di cogliere perfettamente il senso di ciò che oggi proverò a raccontarvi. Di quella sensazione primordiale che ciascuno di noi ha sperimentato su di se una volta venuto alla luce. Prima che il mondo fosse creato, appunto. Inizialmente, il bambino possiede un volto e un corpo che si collocano in un certo senso lontano dall’altro. L’infante detiene il tacito convincimento che tutto ciò che possiede e che lo circonda sia semplicemente il frutto di una sua magica creazione. Sposando una visione evidentemente onnipotente delle cose, il volto del suo Io è qui incontaminato. Basta a se stesso. Tuttavia, sentirà ben presto di doversi affidare proprio all’alterità e a quegli occhi riflettenti, così da avere una chiara conferma della propria corporeità ( per un approfondimento si rimanda all’articolo “Funzione Riflessiva e sviluppo del sè-l’importanza di un banale riflesso” nella rivista di Dicembre 2014 ). Quante volte accade che il bambino, intento com’è nel maneggiare e scoprire per la prima volta il nuovo gioco appena ricevuto in dono dai nonni, esclami insistente ed entusiastico: “Mammaaa… guardamiii !”.
Basterebbe questo semplice quanto pregnante esempio di vita quotidiana di tanti genitori, a far comprendere come il “vedere l’altro” assuma perciò non solo la funzione di conferma della desiderabilità di chi riflettiamo, ma anche quella di com-prensione e accettazione dell’altro “nonostante tutto”, un po’ come se lo avessimo “preso – cioè accolto pienamente – con gli occhi.
Tuttavia, se durante l’infanzia la qualità di questo investimento affettivo primario madre-figlio è risultata in qualche modo fallimentare, è abbastanza intuibile che a farne le spese sarà il complesso delle rappresentazioni internalizzate dal bambino, cioè quelle che nel tempo lo hanno guidato passo passo nella costruzione della propria esperienza soggettiva dell’ “essere in un corpo”.
Fra gli scenari possibili ravvisabili nel lungo termine, si colloca il disturbo di dismorfismo corporeo. Questa condizione inficia non poco il funzionamento psichico individuale, in quanto le persone coinvolte dal disturbo, mostrano frequentemente una preoccupazione eccessiva per una o più parti del proprio corpo o per imperfezioni di poco conto o addirittura solo immaginate, a cui cercano di rimediare attraverso tentativi ostinatamente ossessivi tesi al nascondimento, alla modifica, finanche alla rimozione di quelle stesse parti, tentativi che contemplano tanto il ricorso alla chirurgia quanto alle cosiddette cure fai da te (l’uso di candeggina per schiarire la pelle o quello della carta vetrata per la rimozione di cicatrici, per es.), elementi che certamente tradiscono la spiccata tendenza all’autolesionismo di questi pazienti. La componente nucleare del disturbo risiede in un vero e proprio “odio” verso la parte del corpo soggettivamente percepita come brutta o difettosa; tuttavia, un’analisi più attenta e profonda è in grado di disvelare la presenza di spettri narcisistici di vario livello, sottostanti al dismorfismo di superficie. L’evidenza che l’origine del disturbo si pone in un deficit della madre-altro connesso ai primi contatti con la pelle ed il viso del bambino, spiega forse il difficile rapporto con gli specchi nei pazienti affetti da dismorfismo, che possono così, tanto evitarli categoricamente, onde rifuggire dalla penosa immagine di se ivi riflessa, quanto controllarla ossessivamente per mezzo di un rispecchiamento costante. La precoce esperienza traumatica dello sguardo ricevuto, conduce questi pazienti a sentire gli sguardi altrui come comunque ostili per il Se, circostanza che si evince chiaramente dalla loro errata interpretazione delle espressioni emotive altrui. Non è infrequente che le persone colpite da dismorfismo propendano per una soluzione onnipotente del problema connesso all’immagine di se, una soluzione netta e “concreta” (spesso coincidente col taglio chirurgico della parte rifiutata e percepita come sgradevole) e che certamente si sostituisce al pensiero, o meglio, alla possibilità di pensare, con l’aiuto del terapeuta, al significato profondo che l’odio verso quella o più parti di se rivestono per la persona e all’integrazione di tali sentimenti spiacevoli, nutriti tanto per il Se quanto per l’oggetto. Una soluzione, questa, evidentemente troppo dolorosa sul piano psichico, visto il suo profondo intreccio col precoce sguardo materno incontrato; nella fattispecie, l’esperienza soggettiva di tali pazienti racconta di una madre intesa come “specchio unidirezionale”, indisponibile, assente o inaccessibile nella relazione con loro, laddove la qualità inaccessibile è data dall’opacità e quindi dalla scarsa nitidezza dello specchio-madre, il che rimanda alla persona l’idea che il proprio corpo non sia desiderabile. Di contro, i pazienti possono aver fatto esperienza di una madre percepita come “ specchio distorcente”, ben più controllante, ostile e persecutoria della prima, per la quale invece il corpo del bambino – non desiderato e reso oggetto di intrusive ispezioni – altro non era che il luogo privilegiato su cui poter scaricare più facilmente tutte le parti più brutte e inaccettabili e cattive di se. Infine era possibile scorgere anche la presenza di un’ultima tipologia materna derivante dalla seconda su descritta, in cui il corpo e l’aspetto del bambino erano estremamente investiti e stimolati, quasi a tradire un’accezione sessuale sottostante all’intento; qui, un simile investimento narcisistico sul corpo del figlio, cela un bisogno d’ammirazione e attenzione che sono i medesimi che la madre vorrebbe ricevere. In nessuno di questi casi è stato possibile interiorizzare la rappresentazione di un osservatore benevolo interno. Pertanto, nei pazienti con grave dismorfismo corporeo, il ricorso a soluzioni concrete al problema, ha lo scopo di espellere la parte meno desiderabile di se, come se, attraverso la rimozione o il rimodellamento fisico di questa – percepita come un persecutore interno – la persona potesse controllarla magicamente, ponendola “fuori di se”. La fantasia è quella per cui, ora che la trasformazione chirurgica ha prodotto un nuovo corpo “ ideale”, il paziente potrà finalmente godere di quello sguardo benevolo dell’oggetto – madre da sempre così agognato.
Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti
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Per approfondire:
– Lemma A., Sotto la pelle. Psicoanalisi delle modificazioni corporee, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2011.