“Non c’è più spazio per il maestro. Non parlo solo dei grandi maestri, ma persino dei piccoli maestri, quello di scuola ad esempio.
Quando io andavo a scuola, quello che mi insegnava a leggere e a scrivere era un maestro, un personaggio che ha influenzato tutta la mia vita. Si è rotto il meccanismo che creava dei modelli. Oggi ognuno è il medico di se stesso, tutti hanno visto alla televisione qualcosa, o hanno sentito dire, tutti sono cuochi, sono architetti, tutti sono tutto e nessuno rispetta più niente.”
Uno dei momenti migliori di questa quarantena è stato immergersi nella filmografia hitchcokiana (ai lettori più attenti non sfuggirà che questo è stato anche un suggerimento proposto dal Sigaro nel periodo di lockdown). Lo ammetto, ho passato gran parte delle mie serate guardando i suoi film e commentandoli in un cineforum più o meno interiore prima di andare a dormire. La consistenza, la forza viva dei suoi personaggi lasciano un segno; nonostante la loro potenza, la loro vitalità sono tuttavia immersi in uno spazio di dormiveglia, un onirico che però è lucido e trasporta dentro lo spettatore.
C’è un tema ricorrente tra questa vitalità dei personaggi, che da addetta ai lavori, non potevo non considerare; è il tema dell’identità. Qualcuno potrebbe dire “sai che novità”, pensando alla salienza che ha assunto la tematica nel 900; tuttavia il grande registro lo svuota di qualunquismi e di boriose banalità e lo porta sulla scena nutrito di originalità e si significati sempre nuovi.
Facciamo un piccolo passo indietro. Cosa significa identità? Il termine deriva dal latino identitas-atis, “medesimo”; riferito a persona significa l’essere quello e non un altro. Se si parla di identità psicologica ci riferiamo al senso e alla consapevolezza di sé come entità distinta dalle altre e continua nel tempo (per ulteriori approfondimenti si rimanda all’ articolo IDENTITA’: COME SI RISPONDE ALLA DOMANDA CHI SEI). L’identità è una conquista, a mio avviso è un tema centrale e imprescindibile per il trattamento di qualsiasi tipo di disturbo psicopatologico e percorso psicoterapico; è il centro del senso di sé, del proprio corpo e se vogliamo delle relazione con gli altri e con il mondo. E se questo senso si dovesse alterare? Che effetto potrebbe avere su di noi la perdita dei tasselli della nostra struttura identitaria? Possiamo sostituirci ad altre persone o essere sostituiti?
Può capitare, appena svegli, di ritrovare sul proprio cuscino un capello perso, oppure sognare di perdere tutti i capelli e peli dal viso, accompagnati a forti stati d’angoscia e terrore. Talvolta, invece, la perdita di peli e capelli può divenire realtà, a causa di una alopecia temporanea o definitiva, provocando forti disagi nel contatto con l’altro e con il mondo.
Per Alopecia intendiamo la caduta di peli e/o capelli che può colpire qualsiasi parte del corpo, ma più frequentemente sul capo. Esistono vari tipi di alopecia, tra qui quella totale, che implica la perdita totale di capelli e peli, o quella localizzata, con chiazze irregolari. Tra le cause dell’alopecia possiamo individuare quelle genetiche, ormonali, alimentari, chimico-farmacologiche, psicosomatica. Se dopo tutti gli esami medici, sono escluse le precedenti cause organiche allora ci si direziona verso la causa psicosomatica.
Non possiamo parlare di alopecia se non comprendiamo il simbolismo centrale che ruota intorno ai peli, e nel particolare, ai capelli, ossia il concetto di legame affettivo, connesso all’aspetto filiforme del capello, e all’energia che fluisce dal dentro al fuori (dal mondo interno al mondo esterno e viceversa). Generalmente, a prescindere dalla gravita della patologia, l’alopecia spesso insorge dopo un’esperienza affettiva traumatica per la persona.
“Preferisco cenare da sola. Sto bene con la mia famiglia, ma quando mangiamo no, non riesco. Non riesco a guardarli mentre muovono la bocca e emettono quei rumori così fastidiosi. Ogni volta che sono a tavola con loro devo sbrigarmi a finire e cercare una scusa per alzarmi prima che tutti abbiano finito, altrimenti non smetto mai di mangiare, tutto il tempo, per attutire i loro rumori con i miei… Perché lo fanno? Perché non capiscono e non si impegnano a mangiare meglio? Mi innervosiscono così tanto, vorrei sgridarli e a volte menarli.”
“Da qualche anno vado al cinema solo se prenoto i biglietti online. Posso guardare un film serenamente solo in ultima fila, non posso avere persone dietro di me. Odio chi mangia i pop-corn e se sento quel rumore provenire dai posti dietro, impazzisco. La gente è menefreghista, non pensa di poter disturbare, se ne frega e a me questo proprio non va giù!”
Negli anni sessanta e settanta del Novecento in Italia si assiste all’arrivo consistente di lavoratori e lavoratrici provenienti da Eritrea, Etiopia e Somalia, le ex colonie italiane, o da altri paesi dell’Africa settentrionale. Ma non solo.
Premessa dell’autrice: Il rischio nell’affrontare questo tema è che nel calderone della trovata di marketing dell’amore romantico vadano a finire anche altre forme di amore, che non è affatto l’intenzione di questo articolo.
L’amore romantico è un concetto che risale al romanticismo, un movimento culturale nato in Germania tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento che coinvolge arte, letteratura e musica e si pone in contrasto con il razionalismo illuministico. Il termine romantico deriva dal termine inglese romantic, per indicare ciò che connesso al romance, cioè la letteratura fantastica tipica della letteratura medievale, in contrasto con la narrazione realistica della novel.
L’amore nel romanticismo viene rappresentato come un sentimento d’amore potentissimo caratterizzato da piacere e attrazione nei confronti dell’altro/a, una creatura perfetta che va a rappresentare il mondo intero, con il/la quale anche la passione sessuale è perfetta.
In questo immaginario,l’amore va spesso a braccetto con la morte.
“Non puoi pretendere di vincere il jackpot se non metti qualche monetina nella macchina” – Flip Wilson (attore statutinense)
Gli operatori dei servizi socio-sanitari e socio-assistenziali hanno potuto assistere in diretta alla “nascita” di una nuova patologia che caratterizza il nuovo millennio : il gioco d’azzardo patologico. Recentemente riconosciuto dal DSM-5, il gioco d’azzardo patologico è definito come una forma di dipendenza senza sostanza.
La parola nascita è inserita tra virgolette in quanto l’eccesso nel gioco d’azzardo è un fenomeno conosciuto fin dall’antichità, tuttavia prima dell’apertura del mercato d’azzardo esso era limitato a pochi soggetti frequentanti i famosissimi casinò, gli ippodromi o le bische clandestine; oppure i rituali giornalieri del gioco del Lotto o quelli annuali della lotteria Canzonissima.
Come ogni relazione, anche quella terapeutica giunge a un termine.
Ma qual è questo termine, chi lo stabilisce e quando, rappresenta una controversia teorica e metodologica iniziata accademicamente dal 1937.
Freud non aveva dubbi circa il significato della fine di un’analisi. Essa si considera tale quando «paziente e analista smettono di incontrarsi in occasione delle sedute analitiche». In altri termini quando paziente e analista ritengono di aver raggiunto, ciascuno dal suo punto di vista, la meta prefissata: il primo il benessere psicologico personale e il secondo la convinzione di aver portato il paziente ad una condizione che lo garantisca dal «rinnovarsi dei processi patologici in questione».
Egli affrontò la questione in un saggio fondamentale scritto nel 1937, «Die endiiche und die unendiiche Analyse», ovvero «Analisi terminabile e interminabile». Per Freud l’analisi «definitivamente portate a termine» comporta l’assunto che la guarigione analitica possa essere definitiva, ovvero che il conflitto pulsionale (tra Es ed lo) sia risolto per sempre e non possa ulteriormente verificarsi.
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