Giorno: 11 Gennaio 2016

L’ipocondriaco. Viaggiatore solitario

Spesso al pronto soccorso o dal medico di base si presentano pazienti che si sono già fatti una diagnosi per conto loro…e molto spesso con esito catastrofico. Un mal di stomaco può così diventare il sintomo di una malattia incurabile, senza pensare che la sera prima si è mangiato un fritto pesante. È frequente che ci si prenda gioco nelle corsie degli ospedali di queste persone, ma immaginatevi cosa vuol dire vivere in questo modo. L’ipocondriaco non è un malato immaginario, ma una persona che soffre e l’ipocondria non è una malattia, ma un mezzo di espressione. Come ben spiegato dall’articolo “Ipocondria- silenzi del corpo, rumori dell’anima” , le origini del pensiero ipocondriaco possono avere esordio nell’infanzia e in particolar modo nel rapporto tra il bambino e chi si prende cura di lui: una madre incapace di rispondere in maniera adeguata ai bisogni del figlio o anch’essa ipocondriaca può portare il bambino, nel corso degli anni, a dover badare a se stesso, rispondendo ai segnali del proprio corpo. Il corpo diventa così l’unico oggetto di ansie e preoccupazioni.

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Infanzie sottratte. Il prezzo di un’educazione violenta

Succede che, se un bambino subìsce violenza, di qualunque genere essa sia, egli è costretto a bandire quell’esperienza traumatica dalla propria coscienza, gettandone il ricordo nel posto più lontano che può (per un approfondimento si rimanda all’articolo Dissociazione e trauma – Come se non fosse mai accaduto), così da garantir-si quantomeno una pseudo – sopravvivenza psichica. Si, perché in fondo, ciascuno fa quel che può. Figurarsi un bambino. E quando i responsabili di quell’ abuso più o meno tacito (per un approfondimento si rimanda all’articolo Le possibili conseguenze di un abuso – Mi fido di te?) sono coloro che dovrebbero essere quei (potenziali) garanti di un’infanzia felice, ecco che tutto, nella vita e nella mente dell’infante, si complica, tanto che sarà chiamato a trovare una qualche soluzione che gli consenta di amare ancora i propri genitori. Nonostante tutto.

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La funzione psicologica della fiaba. Il regno del proprio inconscio

“C’era una volta, tanto tanto tempo fa, un regno…”

Ogni bambino, nel proprio percorso di crescita, si ritrova ad affrontare angosce e fantasie relative alla propria fase di sviluppo, superando delusioni narcisistiche, dilemmi edipici, rivalità fraterne, dipendenze infantili, conseguendo una propria individualità, un proprio valore ed un proprio senso morale, effettuando dunque quel passaggio necessario da identità unicamente famigliare (dove la propria identità è data in relazione al sistema famigliare) ad un’identità individuale (dove la propria identità è autocostituita). Attraverso i secoli, durante i quali, con le successive rielaborazioni, diventarono sempre più raffinate, le fiabe finirono per trasmettere nello stesso tempo significati palesi e velati, finirono cioè per parlare simultaneamente a tutti i livelli della personalità umana. La fiaba si occupa, infatti, di problemi umani universali, soprattutto di quelli che preoccupano la mente del bambino, e quindi parlano del suo Io in sviluppo e ne incoraggiano la crescita, placando nel contempo pressioni consce ed inconsce. Il bambino può giungere alla conoscenza ed alla capacità di conoscere se stesso non attraverso una comprensione razionale della natura e dei contenuti inconsci, ma familiarizzandosi con esso, effettuando sogni ad occhi aperti: riflettendo, fantasticando e rielaborando intorno ad adeguati elementi narrativi in risposta a determinate pressioni inconsce. 

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Somatizzazione e Psicosomatica

Se solo si potesse pensare

Vi è mai capitato in certi momenti di avere la sensazione di essere spettatori della vostra vita, di guardare la vostra vita dall’esterno, come lo scorrere della pellicola di un film? Vi è mai capitato di avere la consapevolezza di trovarvi in un momento-chiave della vostra vita, uno di quei momenti che vi ricorderete negli anni a venire, e sentirvi come estranei, incapaci di reagire tempestivamente all’evento che sta accadendo? È una sensazione di de-realizzazione che può durare un po’, perché la nostra mente necessita di un tempo che non corrisponde a quello esterno per processare l’evento, elaborarlo. In quei momenti, visti dall’esterno, potremmo risultare assenti, quasi inebetiti, altrove. È il risultato di un meccanismo di difesa (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “I meccanismi di difesa – Quei garanti della sopravvivenza”) messo in atto dalla nostra mente, che percepisce un potenziale pericolo nell’evento in corso e ne ritarda quindi la consapevolezza, come per permettere di prepararci a questa. La nostra mente è tuttavia un tutt’uno ben integrato e, non potendo spegnere a nostro piacimento un singolo interruttore, come quello della consapevolezza dell’evento in questione, subisce una sorta di black-out generale, con il risultato di un nostro “spegnimento”. Il nostro corpo però non può permettersi di interrompere il proprio funzionamento e si trova a rivestire un doppio ruolo: il proprio, e quello della mente, momentaneamente fuori uso. È così che il nostro corpo si sovraccarica ed ha delle reazioni anomale ed anormali, comunemente chiamate somatizzazioni.

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Assertività
La Conquista dei “No”

È così semplice dire “No”?

Qualche giorno fa mi è capitato di vedere un video di un bambino mentre fa il bagnetto, che parla con il papà. Durante il gioco che accompagna un momento fondamentale nella giornata di un genitore e del suo piccolo, il padre intrattiene il figlio facendo domande a raffica. Il bambino ha solo qualche mese meno di un anno, ma sembra aver già appreso la differenza fra la comunicazione verbale e non verbale. Si guarda intorno con occhi illuminati e sorride; si percepisce che sa dire ancora poche parole per via della sua età ed, infatti, nel video ne pronuncia solo una, precisa e diretta: “No”…“No”…“No”… Ad ogni domanda, risponde con “No” divertito, euforico ed inappropriato. Sembra aspettare con impazienza la fine della domanda per essere libero di pronunciare quella parolina che ci fa sorridere per la sua inadeguatezza, perché siamo socialmente spinti ad associarla all’accezione negativa del rifiuto, ma che rappresenta una scelta comunicativa forse meno ingenua di quanto immaginiamo . Dice “No”  senza pensarci troppo, senza fatica.

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Il Disturbo Evitante di Personalità
Un semplice “asociale”?

Undici Gennaio. È da poco iniziato l’anno nuovo che, come i precedenti, con la festività dell’epifania ha posto fine al periodo delle vacanze natalizie. Chi è riuscito ad avere dei giorni di ferie ne avrà senz’altro approfittato per passare un po’ di tempo in famiglia e con gli amici. Nei normali giorni lavorativi può risultare difficile concedersi sane frequentazioni amichevoli e perciò in questo periodo molti ne approfittano per ritrovare un po’ di vita sociale. Giocate a carte, cinema, brindisi, amici, parenti.

Tanti stimoli che non tutti in realtà riescono a tollerare.

Mi riferisco alle persone che presentano un Disturbo Evitante di Personalità, per le quali le occasioni di contatto sociale rappresentano più un pericolo che una gioia.

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“Star Wars: Il risveglio della Forza”
Il cinema e l’eredità del mito, tra eroi, spade laser e archetipi junghiani

Star Wars the force awakens – 2015 Lucasfilm, Bad Robot Productions Distribuzione Walt Disney Studios
Image courtesy of Walt Disney Distribution

“Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…” è questo l’incipit di ogni episodio della saga di Star Wars, il cui settimo capitolo “Il risveglio della Forza”, è uscito nelle sale italiane lo scorso dicembre. Sono passati trent’anni dalla battaglia di Endor e dalla distruzione della seconda Morte Nera, e l’eroe della saga, Luke Skywalker, è scomparso.

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Oncologia e sessualità femminile
Scoperchiare il vaso di Pandora

Waterhouse John William “Pandora” (1986)

Sono passati solo due anni da quando ho cominciato a lavorare con pazienti oncologici e ricordo molto bene che la prima volta ero molto preoccupato: avrei dovuto vedere una donna che aveva avuto un linfoma ed aveva appena terminato i cicli di chemioterapia. La domanda che mi continuava ad angosciare era “cosa mai potrò fare io per fornire un sostegno a questa persona?”. La domanda potrebbe essere valida per qualsiasi tipo di paziente, ma quando ti trovi di fronte a questo tipo di male ti senti realmente impotente. Sbagliavo. Non soltanto perché ero concentrato sul fatto che avrei dovuto fare o dire qualcosa che avrebbe fatto stare meglio l’altro, delirio di onnipotenza narcisistico dello psicologo alle prime armi, quanto per le aspettative che mi ero creato su ciò che avrebbe voluto la paziente dai nostri incontri. Quello che mi stupì fu che durante le sedute, la paziente parlava della malattia solo in parte, per il resto del tempo mi spiegava le sue preoccupazioni per la figlia che non voleva andare all’università, per il padre anziano con cui aveva rapporti conflittuali, per il marito che non la guardava più come una volta e soprattutto perché dopo la malattia non si sentiva più donna. Per me non era così ovvio che la malattia e queste problematiche fossero collegate. Ingenuamente mi domandavo come fosse possibile che questa signora, dopo aver rischiato la sua vita, subìto un intervento, passato mesi in ospedale e che si presentava con un foulard in testa per nascondere la caduta dei capelli e una mascherina sulla bocca per evitare il contagio di malattie viste le difese immunitarie basse, si preoccupasse di altro che non fosse la sua salute. Sbagliavo ancora.

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